Shared economy e il problema dell’impiego

Fate uso dei servizi offerti dalla cosiddetta shared economy? Io per esempio assai: Airbnb per cominciare, sia per ospitare gente in casa mia, sia come ospite di altri. A Washington DC, dove i taxi sono oggetti rari quasi come gli ufo e ochissimo affidbili se uno deve, per dire, prendere un treno, Uber e Lyft ci hanno salvato la vita. Un paio di volte abbiamo utilizzato Postmast, ma poi ci hanno consegnato una pizza in verticale e questo ha posto un po’ il freno al notro entusiasmo. Ora che sono a Firenze, sono tentatissima da VizEat, per esempio.

Insomma, difficile farne a meno.

Ma anche importante conoscerne i limiti, che come spesso capita in questi casi impattatano i lavoratori, difficilmente ascrivibili a categoria e quindi con grave difficoltà ad organizzarsi in qualunque forma vagamente sindacale.

Il che ovviamente aiuta il gioco delle compagnie che offrono non stipendi, meno che mai protezioni assicurative, ma anzi paghe orarie flessibili a seconda del momento, in un ritorno abbastanza spaventoso alla formula del cottimo. Inoltre, quando il datore di lavoro non è una persona in carne ed ossa, ma un’applicazione, si “licenziano” facilmente questi non dipendenti, semplicemente ostruendo l’accesso all’applicazione stessa.

Ma opporsi è possibile, e vedremo con quali risultati: i lavoratori “indipendenti” di Foodora – i corrieri del cibo – si sono organizzati in sciopero dopo che le paghe orarie erano state ridotte, e adesso la protesta si è allargata da Torino a Milano.

Alcuni dei lavoratori anch’essi atipici che si occupavano dell’organizzazione dell’azienda sono stati puniti per aver incontrato gli scioperanti: un gesto maldestro da parte degli imprenditori che gli ha guadagnato un bel po’ di stampa negativa e la perdita dal portfolio clienti di alcuni ristoranti, che simpatizzano con gli scioperanti.

Anche il ministro Poletti ha messo il piede nella pozzanghera, dichiarando che i lavoratori di Foodora altro non sono che gitanti in bicicletta, una mossa molto poco politica e soprattutto la validazione che c’è in giro l’idea che i lavoratori della gig economy lavorino per svago, e non per necessità. Si è poi corretto.

Ma se magari può essere stato così agli albori di questa tendenza, chiaramente questo non è più vero: mancando gli impieghi tradizionali, ci si arrabatta. Ma arrabattarsi e venire sfruttati son cose diverse e fa piacere vedere che almeno i lavoratori se ne rendono conto (non crediate che sia così ovvio, in anni in cui il confine tra lavoro e advertisement è diventato vaghissimo.)

Intanto queste imprese dipendono moltissimo dalla immagine che offrono ai clienti, non avendo praticamente gli strumenti di lavoro a disposizione (per esempio, Airbnb non possiede le stanze che permette di affittare). Questo lascia a noi, clienti e spettatori un minimo di intervento, la scelta di NON utilizzare app mascalzone.

Naturalmente questo richiede da parte nostra informazione e determinazione. Il dramma dell’epoca di Internet.