La retorica al Superbowl

Domenica sera c’è stato il Super Bowl, che come probabilemte sapete è L’EVENTO televisivo americano, dove una percentuale spaventosa della popolazione di raduna davanti alla tv, di solito in gruppi, e guarda una partita di football americano interrotta ogni 30 secondi circa da spot pubblicitari in prima visione e inusitatamente lunghi.

Le squadre erano i New England Patriots (squadra per cui tiene Donald Trump) e gli Atlanta Falcons, che hanno perso all’ultimo game dopo un inizio di partita sfolgorante.

Inevitabilmente, in una città ed in un periodo così politicamente carico, si teneva tutti per i Falcons, persino io che non ci capisco niente ed ho un interesse per il football vicino a quello che ho per la vita sociale dei muschi e licheni.

Gli spot, quello è un altro discorso.

Due in particolare hanno fatto discutere.

Quello dell’ 84 Lumber, un’impresa che si occupa di costruzioni in legno, segue il viaggio di una madre ed una figlia in fuga da un generico centro America, alla volta dell’America del sogno.

Si trovano però davanti un muro e per un momento si scoraggiano. Ma sul muro c’è una porta, che si apre al loro passaggio, e il generico messaggio è: le porte dell’America (e per estensione, di 84 Lumber) sono sempre aperte per chi lavora duro e ha passione.

Questo spot ha destato enorme scalpore, per il semplice fatto che il muro viene presentato come opera terminata e capace di filtrare chi è qui per lavorare duramente da chi viene qui con cattive intenzioni.

Budweiser, la birra per intenderci, ha anche presentato uno spot che invece ha offeso profondamente i sostenitori di Trump, sempre con migranti che inseguono il successo a dispetto delle difficoltà come sfondo. In questo caso, si presume, il fondatore del birrificio, emigrante dalla Germania.

 

Certo, l’accoglienza all’arrivo è molto meno idealizzata, abbiamo persino un personaggio di colore che attraversa lo schermo per un secondo, ma alla fine il messaggio è identico.

In questa terra, chi lavoro duro e ci mette testa e cuore, raggiungerà il successo.

Ma no, non è così, non è così per moltissime persone, ed è profondamente irritante vedere questa retorica venire continuamente rigurgitata sulla testa degli americani, come dei nuovi arrivati.

Molta gente lavora duro e poi viene inghiottita dai debiti contratti per essersi dovuta curare.

Molti hanno un salario minimo che non copre le spese di vita di una famiglia di 4 persone.

Molti lavorano 14 ore al giorno e poi devono pregare di non essere fermati dalla polizia perché hanno un fanalino rotto e poi rimpatriati nei luoghi da cui sono fuggiti.

Molti, proprio in questi giorni, hanno atteso tre anni per un visto e poi si sono visti rimettere sul prossimo aereo da un decreto insensato, crudele ed anche parecchio stupido.

Non vorrei ripetermi: this is not the land of the free.

E se per qualcuno, tra cui noi, l’america offre opportunità notevoli, credetemi se vi dico che in molti ne pagano il prezzo, un prezzo certamente spropositato.

No, l’America non è l’unico paese crudele con i poveri e i nuovi arrivati. Ma certamente è quello a cui più piace crogiolarsi in queste favole di moralità che paga, di duro lavoro che consente avanzamenti sociali ed economici.

Ed è irritante, o com’è irritante.

Verso una crisi istituzionale

Un giudice federale emette una sentenza. Gli agenti del Custom Border Patrol la ignorano. CBP fa parte di un’altra agenzia federale, la peggiore, che si chiama Homeland Security.

Siamo preoccupati, offesi, sconvolti: facciamo intervenire gli US Marshalls creando una crisi istituzionale? Facciamo sit in come nel 1968 (John Lewis, leggenda delle lotte per i diritti civili, dopo che gli è stato rifiuta l’incontro con gli agenti del CBP “Why don’t we just sit here and stay a while?”)

Sono entusiasta di vedere il popolo americano reagire con entusiasmo e determinazione.

Ma di nuovo, non raccontiamoci storie. Una breve ricerca e scopriamo che il CBP fa il bello ed il cattivo tempo sui confini a partire dal 2001. E forse prima.

E nessun giudice ha emesso provvedimenti. Nessuna folla si è radunata a proteggere i migranti, spesso provvisti di regolare visto, trattenuti indebitamente ai confini del paese.

Ancora, meglio tardi che mai. Ma se il partito democratico vuole tornare ad avere un minimo di presa politica, non può ignirare la realtà.

Border Patrol is getting away with murder (2016)

Border patrol accuded of Profiling and Abuse (2015)

Border Patrol Abuse Since 2010

 

 

L’America e il mondo: Trump e l’isolazionismo, Global Gag Rule

Capita di leggere tra le connessioni su Facebook un inquietante entusiasmo per Donald Trump, sulla base del fatto che “finalmente l’America smette di occuparsi del resto del mondo” (devo dire a volte da parte di gente insospettabile).

Di rencente sono stata rimbrottata per l’uso inappropriato di Facebook come valvola di sfogo, (non mi pareva che fosse quello il caso, ma non stiamo a polemizzare) quindi scrivo qui, dove ho più spazio e meno lettori.

Ragazzi cari, voi pensate che Trump e la sua amministrazine si occuperà solo di politica interna rimpendo uova nel paniere americano ma non nel resto del mondo.

Lasciatemi dire: ma siete fuori di melone?

A parte la logica che Trump ha interessi economoci personali in giro per tutto il mondo e usera una delle super potenze in tutti i modi a lui concessi per tirare acqua al proprio mulino.

C’è poi il piccolo problema delle No profit e del Global Aid, che è tutto men che perfetto, ma al momento è tutto ciò che abbiamo. Perché in questo mondo globalizzato nessuno è un isola e per ogni bomba c’è qualcuno che si danna per migliorare e condizioni di vita nei paesi in difficoltà ( e anche se pensate – lo penso anch’io – che siano spesso gli interessi dei paesi occidentali a mettere il resto del mondo in difficoltà, beh, qualcosa di buono ogni tanto vien fuori lo stesso).

Così può essere che via sia sfuggito il provvedimento firmato dal nostro presidente “di cui non si deve parlar male perché è contro producente”, che estende una policy chiamata Global Gag Rule o Mexico City Policy, originariamente introdotta da niente meno che Ronald Reagan.

Flash News: questa policy si estende ben al di fuori dei confini degli USA. Go figure!

Non solo le organizzazioni no profit che offrono vari tipi di assistenza sanitaria ai paesi in via di sviluppo non sono autorizzate a procurare aborti in NESSUN caso.

Non possono nemmeno offrire direttive su come procurarsi il suddetto aborto presso altre organizzazioni non americani, non possono nemmeno pronunciare la parola aborto.

E non importa se i fondi per l’operatività della suddetta organizzazione non provengono dal governo americano, ma da istituzioni private. Ugualmente il divieto sussiste, e spesso le organizzazioni non possono nemmeno più lavorare con  propri assistiti.

Beh, non c’è male come disinteresse per ciò che avviene all’estero. E come primo giorno di lavoro del presidente.

 

Il privilegio di una protesta pacifica

La protesta di Sabato a Washington è stata pacifica: niente arresti, niente vetrine rotte, niente scontri. La polizia ha fatto foto indossando cappellini rosa in solidarietà, uno di loro mi ha dato una amichevole pacca sulla spalla mentre invadevo (illegalmente, insieme ad altre migliaia) una strada non chiusa al traffico e mi ha augurato buona giornata.

Bello, congratuliamoci con noi stessi. Ma poi fermiamoci a pensare, che è sempre una buona idea.

Protestare pacificamente è un privilegio. Vuol dire che si vive in una democrazia dove il dissenso – in questa forma – è ammesso.

Vuol dire che si fa parte di una categoria di persone il cui dissenso non è percepito come pericoloso, ma semmai colorato, positivo, propositivo.

Come donne, ed in maggioranza bianche, sabato la nostra protesta è stata considerata accettabile, e i poliziotti ci guardavano sfilare con atteggiamento rilassato e senza assetto da battaglia. Come ho detto, in alcuni casi simpatizzavano persino.

Non funziona allo stesso modo per le proteste degli afro americani, come ci fa notare in un lungo thread su twittter Batty Mamzelle https://twitter.com/battymamzelle/status/823185040498630656.

Ci incoraggia anche ad usare questo privilegio per proteggere le proteste degli “altri”, quelle che invece sono minacciate da risposta violenta da parte delle autorità.

Il riconoscere il proprio privilegio è importante. Unire le forze coi meno privilegiati è importante. Ed incutere un minimo di disagio nello status quo è fondamentale. Altrimenti non è una protesta, è una sfilata di Carnevale.

Come i Democratici spianano la strada ai Repubblicani

Possiamo interrogarci a lungo su cosa abbia portato Trump al potere, ma certamente una delle cause è stato il governo democratico di questi ultimi 8 anni.

E non lo dico solo in base al fatto che il popolo vota sui risultati di chi è in carica (che poi non è sempre così, e il NYT ha un bell’articolo su come la percezione di ciò che sia stato fatto sotto l’amministrazione Obama non è sempre corretta, nel bene e nel male).

Mi riferisco in questo caso ad iniziative prese – o non prese – dai rappresentanti demoratici al congresso ed al senato degli Stati Uniti.

Per esempio, se Trump avrà presto un gabinetto formato da milionari neoliberisti, non si può dire che stia introducendo un’assoluta novità: Penny Pritzker, per fare un’esempio, è stata a capo del Department of Commerce, e viene da una famiglia di multimiliardari nel campo dell’immobiliare e della finanza, con una storia di repressione dei sindacati, conflitto di interessi e affari poco chiari in generale.

Cory Booker, congressman del NJ, ha ai suoi tempi di Sindaco di una città del posto collaborato con Betsy DeVos (chiacchieratissima prossima responsabile dell’educazione con Trump) a smantellare la scuola pubblica del proprio stato a favore delle Charter Schools. (da qualche parte su questo blog ho recensito un libro sull’argomento).

Booker di nuovo, insieme ad altri 12 rappresentanti democratici al congresso, ha votato contro la possibilità di importare medicinali più economici dal Canada, non più di un apio di settimane fa.

Quando Bernie Sanders propose al Senato una legge che rendesse impossibile per i Repubblicani smantellare Medicare, lo straccio di rete sanitaria ancora esistente in America dai tempi di FDR, il senato pareggiò il voto, 49 su 49. Indovinate chi si rese introvabile per fare da spareggio in quella intensa giornata? Ma si, proprio Joe Biden, vicepresidente uscente e recentemente premiato da obama con medaglia al valor civile.

Che fare, quando uno gioa contro se stesso, poi queste cose capitano.

 

Farewell, dear neighbor

Obama ha lasciato la Casa Bianca (è forse sfuggito a qualcuno?) la scorsa settimana, con un discorso che ha fatto piangere molti – ma non Michelle, a cui era destinata la parte più commovente, che lo ha invece seguito col sorriso sornione delle mogli di lungo corso.

Presidente molto amato, Mr. Obama, soprattutto ora che ci ritroviamo con un’agghiacciante sostituto, ma anche molto odiato dagli avversari, scatenatore suo malgrado di tensioni razziali (mai il consenso fu così basso tra gli elettori bianchi middle class come quando fece incontrare il professore nero di Harvard erroneamente arrestato di fronte a casa propria con il poliziotto che lo fermò. Un momento che doveva unire gli anicmi ed i cuori, pensa un pò, benvenuti in America.)

Ma se foste qui ed ascoltasse e leggesse le fonti che ascolto e leggo io, vi accorgereste che molto di ciò che Obama si lascia alle spalle è messo in discussione, soprattutto dai suoi sostenitori.

Si parla di politica estera da falco, di una chiusura mai veramente conclusa della prigione di Guantanamo, droni. Ma agli americani la politica estera interessa fino ad un certo punto (e perché, a noi no?).

Se dobbiamo rimproverare qualcosa ad Obama, sono i soldi tolti alla scuola pubblica per darli alle Charter School (e specialmente nel suo distretto, a Chicago). Sono l’intenzionale ignorare la violenza strutturale e reale sui nativi americani, finché non si è più potuto evitare quando la polizia ha attaccato con i cani i manifestanti contro le pipelines.

Nonostante gli sforzi lodevoli nel naturalizzagere i giovani migranti ispanici, questa amministrazione ha anche visto il maggior numero di migranti deportati.

Potrei continuare, certo. Ma vorrei fosse chiaro che il punto non è “maltrattare” Obama. E’ stato un paicere averlo come vicino di casa in questi anni, tranne quando decideva di spostarsi da un punto all’altro della città bloccando il traffico.

Il punto è che dove Obama ha sbagliato, o anche solo lasciato il lavoro a metà, li si è inserita la destra “alternativa”, offrendo visione (se non soluzioni) alla working class in crisi di asfissia, a tutti quelli che non si sono sentiti agevolati o rappresentati.

Quando un politico uscente sbaglia, gli avversari ne approfittano. Quando gli errori vengono mascherati da vittorie, gli avversari vincono.

Bisogna tenere d’occhio più i politici da noi eletti che gli avversari. Bisogna fare pressione su chi ci rappresenta. Se siete in zona, ci vediamo Sabato 21 per una marcia festosa ed aperta a tutti.

Girl, girl, girl

Da noi è stato tradotto come “L’amore bugiardo” (oibò), e quindi ci siamo persi l’inizio del grande fenomeno dei libri che hanno la parola “girl” nel titolo. Prima ancora, c’era The girl with a dragon tattoo.

Non sono stati probabilmente proabilmente i primi, ma Gone Girl di Gillian Flynn ha dato il via ad una identificazione del tipo libro scritto da una donna che si venda = girl nel titolo.

Girl on the train ha confermato la percezione, e da allora siamo invasi.

Il sito Fivethirtyeight si diverte un pò con le statistiche di questo trend.

Pensate un po’: gli autori donne si beccano più spesso la parola Girl nel titolo ( a volte contro voglia)

Le girl descritte nel libro sono più probabilmente donne adulte.

La protagonista non fa quasi mai una brutta fine.

Ci sarebbe molto da dire sull’uso del termine ragazza al posto di quello donna, ma non è questo quel post.

Queste intanto, le statistiche delle vendite dei libri “girls” nel titolo, negli ultimi anni.

mandel-girls-1

(da 538)

 

La destra “alternativa” e la musica underground

Le notizie sono molte: intanto non vi sarà sfuggita l’esistenza della cosiddetta alt-right, la “destra alternativa” cioè non main stream. Dietro un nome che suona pericolosamente come un festival di musica indie, si nascondono gruppi razzisti e a tratti violenti, socuramente violenti nel nuovo modo “internettiano”, sono giovani, sono tech savvy, e hanno una particolare tendenza a perseguitare i loro bersagli su canali telematici.

Poi c’è la notizia che forse non sapete, e cioè che la città in cui vivo ha una forte cultura musicale underground, e la piacevole abitudine da parte di alcuni residenti, di ospitare in casa propria concertini di band locali emergenti, per aiutarli e farli conoscere ad un pubblico via via più ampio.

Enter Alt Right: i nostri eroi si danno da fare a chiamare le autorità perché interromapano i concerti, citando rischi di incendio o violazioni di sicurezza assortite.

Motivazione: “These places are open hotbeds of liberal radicalism and degeneracy and now YOU can stop them by reporting all such places you may be or may become aware of to the authorities, specifically the local fire marshel [sic],” reads the original post on a 4chan thread that has since been archived. “Watch them and follow them to their hives. Infiltrate social circles, go to parties/events, record evidence, and report it. We’ve got them on the run but now we must crush their nests before they can regroup! MAGA my brothers and happy hunting!” (Via the Washingtonian)

I concerti privati sono culle di liberalismo, degenerazione, il post incoraggia a seguire e denunciare gli eventi in questione, e il “nido deve essere distrutto”. MAGA, è il saluto, ovvero Make American Great Again, e felice caccia.

Uno dice, di tutte le robe che capitano, pare la meno grave. Forse, forse no.

Ma l’attacco all’arte, alla libera aggregazione, e anche – pensa un po’ – alla sfera privata dei cittadini. Quella fa paura, a voi no?

Le reazioni

Il 20 Gennaio si avvicina; l’inaugurazione di un presidente è gran cosa in città: la popolazione triplica, il fermento è grande, e nel caso di Trump, è grande lo scontento.

La città è in prima linea per due motivi: il primo è che siamo la capitale, pertanto qualunque forma di scontento approda qui. Qui ci si può rendere visibili ai governanti, e lo spazio sulla National Mall, intorno agli edifici governativi, lo rende appetibile. E’ uno spazio grande, che permette raduni consistenti, ma allo stesso tempo non si riescono ad ignorare i manifestanti. Tra la Casa Bianca e il Campidoglio ci sarà forse un miglio, un miglio e mezzo. Il potere è qui, qui si manifesta e qui si percepisce. Non importa se non è vero del tutto, questa è l’intenzione e la reazione.

Il secondo motivo è che Washington è città liberal e democratica in tutte le sue forme, e le persone che hanno votato per il presidente eletto si contanto forse sulle dita di una mano.

Quindi qui ci si organizza tutti, e gli eventi non mancano.

Oltre alla ormai nota Marcia delle Donne che si terrà il 21 Gennaio a giochi fatti, e per la quale si aspettano forse 200.000 persone, ci sono un paio di “counter – demonstration” il giorni dell’inaugurazione stessa, poi una festa con biglietto d’ingresso presso il museo di Storia Afro Americana (luogo significativo sia per contenuti che per posizione) e già in questi giorni si moltplicano le raccolte fondi per questi eventi sopra citati o altre cause degne di nota.

E’ ora di rimboccarsi le maniche, indossare sciarpe e cappelli (- 8 previsti domani) e buttarsi nella mischia.

Immigrazione in Canada: uno sguardo indietro

As Halifax c’è un museo che è l’equivalente della Ellis Island newyorchese: si chiama Pier 21, e originariamente era il primo porto di sbarco di tutti gli emigranti dall’Europa, il più vicino alla costa del vecchio continente.

Negli anni, arrivati treni, aerei e mezzi economici, gli europei sbarcano ad Halifax relativamente di rado, o comunque procedono in fretta per altri lidi, con migliori economie e magari anche migliori climi.

La migrazione italian in Canada è relativamente recente, è andata abbastanza forte fino agli anni sessanta del ‘900, e comunque ha avuto il suo apice tra le due guerre. Non è statasempre rose e fiori, come non sempre la nostra cucina è stata condierata tra le migliori al mondo.

Quando i popoli migranti sono percepiti come inferiori, il profumo di lasagne diventa puzzo d’aglio e si fa presto a fare di tutta l’erba un fascio – come sotto il fascismo.

Una mostra attuale mostra come i nostri conterranei non abbiano avuto vita molto facile nel Canada sotto la guerra, e insieme a loro tedeschi, giapponesi e ukraini, individuati come “nemici” e spesso confinati in campi o apertamente emarginalizzati, al punto da spingerli a cambiare nome per nascondere le proprie origini.

La mostra, visibile al Pier 21 ma itinerante per il Canada, è fatta soprattutto da testimonianze dirette.

Non è male rinfrescarsi la memoria, di tanto in tanto.